A proposito
della coltivazione del riso a cavallo del 1800 e 1900 nelle zone
umide di Lentini , riportiamo un articolo pubblicato dal Giornale di
Sicilia l'8 ottobre 2003
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Lentini, là dove si coltivava il riso
Un tempo l'"Urbs fecundissima" nel suo agro annoverava tra le tante
colture anche quella del riso. I maggiori produttori erano il Barone
Beneventano e Signorelli.
di Luca Marino
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LENTINI
– Una recente iniziativa della condotta cittadina di Slow food ha avuto
il merito di far uscire dall’oblio della memoria un’epoca – neppure
relativamente lontana - in cui l’ Urbs fecundissima, nel suo agro,
annoverava, tra le tante colture, anche quella del riso.
Epoca, a
cavallo tra l’unità d’Italia e l’avvento del fascismo, durante la quale
l’economia lentinese non era monoculturale, legata esclusivamente alle
sorti dell’agrumicoltura, anzi.
Il riso,
anche per la presenza di una vasta zona umida, dal Biviere al Pantano, ben
si prestava ad essere coltivato: solo nel territorio di Lentini, nel
novembre 1871 erano poco meno di duecentottanta gli ettari piantumati, per
un raccolto di circa cinquecentomila ettolitri, da una rilevazione del
comune depositata presso l’Archivio di Stato di Siracusa, dalla quale si
evince come a seguire vi fosse il cotone con centoquaranta ettari e, per
le colture arboree, vigneti, oliveti e mandorleti.
Il barone
Giuseppe Luigi Beneventano e Saverio Signorelli tra i maggiori risicoltori
locali, a cui una nota della Prefettura di Siracusa del gennaio 1867
indirizzata al sindaco di Lentini ricordava che “la coltura del riso”
rimaneva “per ora regolata dalle antiche disposizioni
legislative e regolamenti locali”, benché una legge del giugno
precedente ordinasse di dotarsi di un regolamento d’attuazione.
Regolamento
che il consiglio comunale iniziò ad esaminare nel novembre del 1866 con il
parere dell’apposita commissione affinché
la “coltivazione del riso, nel territorio del circondario si permetta alla
distanza di un chilometro e mezzo dall’abitato come si è praticato per lo
passato, attesocchè i nostri campi han tale livellazione che le acque non stagnino
nelle risaie”.
In un
territorio dove la malaria imperversava, il reddito rinveniente dalla
risicoltura non poteva avere come contraltare ‘necessario’ l’ulteriore
degrado della qualità della vita dei suoi abitanti...
Anche perché
il riso, scriveva nel febbraio del 1930 l’ufficiale sanitario del comune,
il prof. Lorenzo Piazza, è “ottimo alimento dei sani e dei malati”,
ricavandone un decalogo d’uso stante il fatto che “il riso merita
d’entrare nell’alimentazione giornaliera delle nostre famiglie e di
sostituirlo all’abuso del pane e della pasta proprio dell’Italia
insulare”, tanto che “per quel senso di benessere che apporta, può
chiamarsi il pane e la carne dei nostri lavoratori”.
Lentini come
la Lomellina o l’Indocina, almeno in ‘illo tempore’?
Non
propriamente, è ovvio.
Senza dubbio,
però, la testimonianza di un territorio colturalmente versatile e fecondo,
così come Cicerone lo aveva conosciuto e descritto, pur tra i problemi e
le contraddizioni di un’agricoltura in mano agli agrari e vittima del
latifondo. |